Due masse di materia sottratte all'alba sanguigna del mondo, incerte ancora fra un'oscura minaccia di vita e il grigio dell'opaco su cui ogni vita si staglia. Due figure in fuga attraverso i loro stessi orifizi, da cui trapela o s'intravede il plasma che le circonda e le formò, e ancora le deforma. Due masse minacciose, minacciate dalle stesse bocche che spalancano, la prima verso l'alto, eruttando lo stesso plasma contro cui si eresse per resistere, la seconda di faccia, coi denti spaventosi ridotti a linee variamente ricurve, e inutili pertanto a trattenere il rigurgito di plasma che con la lingua si srotola e si estende. Dalla bocca del vulcano la materia incandescente scivola come un rigagnolo di lava a corrodere il grigio delle possibilità di una prima forma, e trapassa nella seconda come una ferita, negando con questo solo movimento la prospettiva cui pure immediatamente l'occhio si abitua: quella, insomma, che vorrebbe la pantera in primo piano, e il suo corpo magari acquattato oltre il disegno, in basso (è pronta al balzo, mi dico, è qui dove la guardo che sarà quando avrà compiuto il gesto, quel gesto dell'arte che non si compie mai se non, per l'appunto, con un trasalimento).
Il vulcano sarebbe allora lo sfondo, un piano geometrico con il suo cono che slancia paradossalmente verso l'alto quelle stesse linee che la nostra consuetudine figurativa vuole in fuga. Fuga in profondità, dunque, e controfuga in altezza, verso il plasma, quello che trascina il suo mondo di linee di forza (contro cui, si diceva, fece barriera il primo grigio della forma), e quell'altro che tracima dal vuoto stesso intorno al quale solitamente s'avvolge una forma. Da quella bocca di vulcano, punto di una doppia fuga, un unico schizzo di colore affratella, riporta tutti i piani su una sola superficie, stende sul grigio della prima forma il nero minaccioso della seconda. Nessun vulcano, nessuna pantera: un unico corpo che dalla bocca spalancata si ritorce verso l'opaca altezza-profondità geometrica. La seconda forma è forma della prima, e non ce n'è che una, l'unica che mentre si fa è già due.
Il processo, se si vuole, in quest'opera di Carmine Rezzuti, come sempre quando un'opera sente con tutta se stessa chi poi dovrà rimetterla in funzione, è quello fondativo dell'arte stessa. Non è un vezzo, meno che meno supponenza, in un artigiano poi dell'origine del mondo, come Rezzuti, è piuttosto l'insistenza ordinativa, cosmica, della sua poetica. Nel transitare di plasma che scinde l'organico dall'inorganico, l'inorganico è il residuo che occorre ridare come donazione di senso all'organico. E' così che vengono fuori le forme di luce: intorno a minuscole sacche di vuoto che si sono lanciate come fotoni nel plasma. La prima forma isola e insiste, finchè non esiste, spalancando per noi, nel momento stesso in cui sembra seconda, la bocca che c'inghiottirà. E dalla quale, se si vuole, si può ricominciare a parlare: di un vulcano che è un sito della stratificazione storica, ad esempio, e di una bestia minacciosa che, nella sua forma anfibia (quella del vulcano della tradizione, e quella della ferinità dell'oggi), sa solo ferire se stessa, ogni volta daccapo, ogni volta sulla stessa linea della fronte, ogni volta fin dove ancora minaccia, e ogni volta dove mostra le zanne con cui si divora.
Gabriele Frasca
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